Nonostante la rinomata qualità della produzione toscana, i dati storici noti evidenziano che tale prodotto, ancora all’inizio dell’Ottocento, era poco diffuso, e l’incidenza sui redditi dei proprietari terrieri abbastanza relativa. Non sono ceramente estranei, se non addirittura prevalenti, elementi di natura socio economica, in sostanza quella che potremo definire la necessità di non sottrarre “terra al pane”, come accadeva anche per il pascolo.

L’olivocoltura si intensifica tra la metà dell’Ottocento e il 1950-1960, quando la produzione di olio raggiunge il massimo in qualità e quantità. Il commercio era svolto in prevalenza dalle fattorie, cui spettava, secondo il contratto mezzadrile, il 50% della produzione. Dopo la raccolta le olive erano portate alla fattoria e in genere poste in ambiente asciutto ed aerato che permetteva di portare a termine la maturazione. La prima fase di produzione dell’olio è costituita dalla frangitura. La mola del frantoio veniva azionata con l’ausilio di un animale bendato, o guidato, tramite un attacco legato ad una stanga (bindolo), che girava intorno al frantoio.

La spremitura più tradizionale è quella con cui la pasta ottenuta dalla frangitura, insieme ai noccioli ed eventuali residui di foglie, era posta all’interno dei fiscoli a tasca che venivano sovrapposti e pressati sotto il torchio. Il torchio era azionato manualmente mediante di una stanga all’estremità della quale era posta una corda collegata a un argano.
Il liquido (olio e acqua) dalla pressa defluiva nell’inferno, una vasca posta al livello del pavimento, nella quale avveniva la prima separazione tra le sostanza oleose e l’acqua.

Le prime erano raccolte manualmente e poste in un contenitore per la decantazione.
Per quanto riguarda la conservazione i contadini disponevano di barili, con una capienza di 15 o 30 litri, destinati alla vendita, mentre l’olio ad uso familiare era conservato in un orcio invetriato.