Descrizione Progetto
All’interno del museo è fondamentale il percorso che parte dalla terra: solcarla ed ararla affinché possa accogliere semi e piante, curarla coltivandola e nutrendola con acqua e concime. Al centro, la forza delle bestie, guidata dal sapere tecnico degli uomini, fra aratri vanghe, zappe.
Il Bestiame
Delle bestie di solito si occupava il “bifolco”, di solito fratello del capoccia, ed era buona educazione, per ogni ospite che entrava nella stalla salutarlo con un “che Sant’Antonio ve le protegga!”.
Il Terreno
Le vanghe, le zappe, il bidente, gli aratri, gli erpici qui collocati richiamano alla memoria quelli che erano i lavori più duri per i contadini: dissodare e preparare il terreno di uso agrario per una buona crescita delle piante. Il rinnovo (dissodamento), l’assolcatura, l’erpicatura della terra erano le normali pratiche da eseguirsi in ogni campo del podere secondo quanto disposto dalla fattoria nel quadro delle rotazioni adottate.
La Coltivazione
Le tecniche di coltivazione hanno avuto notevoli cambiamenti negli ultimi decenni mezzadrili, soprattutto con la meccanizzazione delle varie lavorazioni agricole; qui si accenna perciò soltanto ad alcuni metodi tradizionali.
Il Concime La fertilizzazione dei terreni costituì, almeno fino all’introduzione dei concimi chimici, uno dei maggiori problemi per l’agricoltura.
L’Acqua Tra i diversi modi di rapportarsi con l’ambiente quello con l’acqua è sicuramente fondamentale per il mondo rurale.
Bestiame
I materiali qui raccolti testimoniano le varie attività necessarie per l’allevamento e l’utilizzo del bestiame, dalle mangiatoie e trogoli per governare (dare da mangiare) agli attrezzi per la pulizia, gli attacchi da lavoro, la guida, la cura delle malattie. Nel parlare comune le bestie erano soltanto quelle da stalla: le vaccine, quasi tutti bovini da lavoro; le altre erano gli animali e si trattava soprattutto di polli e suini. Le vaccine – bovi nei poderi migliori ma soprattutto vacche e manze – erano l’elemento economico più importante del podere. Da esse, in larga misura, era determinato il saldo annuale del conto colonico, che risultava positivo a seconda che le bestie fossero ben pasciute e sane, domestiche e forti nel lavoro, prolifiche per arricchire la dotazione della stalla. Le bestie fornivano forza-lavoro indispensabile per i lavori poderali, l’altrettanto indispensabile concime, il latte; e il calore che rendeva la stalla il luogo più caldo della casa. Nel Mugello inoltre, si aveva un intensissimo commercio di bovini dal quale ogni capoccia, in accordo con il fattore e tramite il sensale (il mediatore nelle frequenti fiere e mercati contrattava la compravendita, sanzionata da una tradizionale triplice stretta di mano), cercava di ricavare il maggior profitto possibile. Le briglie per bovini (guide) erano lunghe corde che terminavano con le morse o nasaiole in grado di stringere anche dolorosamente, a seconda delle necessità, il muso delle bestie. Campanacci, squille e bubboli, erano necessari per segnalare il bestiame sparso nei pascoli o i muli durante un tragitto di trasporto. Senza i ferri gli zoccoli dei cavalli, dei muli, dei bovini da lavoro si consumavano e si danneggiavano. Per i bovini la ferratura andava rifatta ogni 3-6 mesi, a seconda del loro impiego e del terreno su cui si trovavano a camminare. L’operazione veniva fatta nel travaglio (apposita incastellatura di legno) o comunque utilizzando larghe cinghie o corde (le pastoie) in grado di immobilizzare la bestia e la zampa da ferrare. L’operazione era compito del maniscalco (o fabbro-maniscalco) il quale, con particolare destrezza, doveva togliere i vecchi chiodi e ferri, ripulire e rifilare lo zoccolo e adattarvi il nuovo ferro, conficcare i chiodi di ferro dolce in modo da non procurare dolore alla bestia e facendone uscire la punta all’esterno per poterla ribattere sullo zoccolo.
L’attacco da lavoro tradizionale, utilizzato per secoli e fino a che le macchine non hanno definitivamente sostituito la forza animale nei lavori agricoli più pesanti, era costituito dal giogo per due bestie, attaccato alla stanga dell’attrezzo da tirare (aratro, carro, erpice) mediante l’anello di ferro (chiogolo) che passa dietro la cavicchia e il cavicchiolo infilati nella stanga stessa.
I gioghi esposti sono di dimensioni diverse a seconda dei poderi – di piano, di collina, di montagna- in cui erano utilizzati, il giogo singolo, del quale si è ricostruito l’attacco, visibile al centro del locale, era usato dai contadini con poca terra (detti campaioli) e una sola bestia nella stalla. Nello stanzino a sinistra è ricostruito il vecchio gabinetto (licet), “a buca” della casa.
IL TERRENO
Le vanghe, le zappe, il bidente, gli aratri, gli erpici qui collocati richiamano alla memoria quelli che erano i lavori più duri per i contadini: dissodare e preparare il terreno di uso agrario per una buona crescita delle piante.
Il rinnovo (dissodamento), l’assolcatura, l’erpicatura della terra erano le normali pratiche da eseguirsi in ogni campo del podere secondo quanto disposto dalla fattoria nel quadro delle rotazioni adottate.
Per secoli la vanga è rimasta lo strumento principale nel lavoro di dissodamento. Con essa -a prezzo di un lavoro durissimo- si ottenevano i migliori risultati agronomici del tempo (“La vanga ha la punta d’oro”): rivoltare la terra portando in superficie gli strati meno sfruttati dalle colture degli anni precedenti, interrare le erbe presenti in superficie, arieggiare e rendere friabile il terreno.
A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento anche in Mugello le coltrine di ferro (e ancor più efficienti coltri con avantreno) andranno lentamente sostituendo la vanga che, peraltro, si continuerà ad usare per dissodare terreni marginali (prode, filari, orti) oppure, (ancora nel secondo dopoguerra, se il capoccia o il fattore lo riteneva utile) qualche magolato (la striscia di terra fra due filari) o un intero campo.
Il terreno zolloso lasciato dalla vanga o dall’aratro andava poi spianato e sbriciolato con l’erpice, un tempo con il solo, antico, erpice a trave, poi con un i più moderni erpici a dischi, a coltelli o a denti.
Nelle annate successive al rinnovo si rompe e si assolca la terra con l’arcaico aratro a ceppo. Gli aratri di legno più piccoli – i sementini- erano usati per fare solchi, su terra già erpicata, per la semina del granturco, delle patate o altre colture minori.
Gli antichi aratri a ceppo di legno convivono per molti decenni con i più funzionali aratri in ferro i quali, naturalmente, andranno sostituendoli nell’uso; ma solo i radicali cambiamenti nelle strutture e tecniche agrarie del periodo tra il 1950 e 1970 li collocheranno definitivamente tra i “pezzi da museo”.
LA COLTIVAZIONE
Fino al secondo dopoguerra, nonostante le seminatrici meccaniche fossero entrate in uso negli anni della prima guerra mondiale quando molti giovani erano al fronte e scarseggiavano le braccia, c’era ancora chi seminava il grano a spaglio sulle porchine (strisce di terreno rilevate) e il granturco deponendo i chicchi nei solchi con le dita.
I nuovi impianti di viti, necessari soprattutto per sostituire i vitigni di tipo europeo devastati dalla fillossera (insetto che si insedia nelle radici) con quelli americani ad essa resistenti, si facevano scavando fosse, ben allineate con gli aspi a corda e ben fognate con sassi e cocci, dove poi si mettevano a dimora le barbatelle allevate in vivaio, già innestate o meno con vitigni “nostrali”. I maglioli (talee di vite) potevano essere piantati anche con l’apposita gruccia.
Una campagna che era ovunque intensamente coltivata e richiedeva una capillare regimazione idrica, funzionali sistemazioni dei terreni e quindi la competenza, e il continuo lavoro per evitare dissesti e danni alle coltivazioni. La sistemazione e la pulitura di fossi e fossette, l’attenzione durante le arature e vangature ad evitare lo scorrimento a valle del terreno, la realizzazione dei terrazzamenti e la manutenzione di ciglioni e scarpate, le scoline e addirittura le buche scavate in fondo ad esse per raccogliere la terra depositatavi dall’acqua e rimetterla a monte nei campi, erano alcuni tra i tanti accorgimenti messi in opera dai contadini, per conservare al meglio il podere e, in definitiva, l’ambiente dal quale traevano da vivere.
La sarchiatura era un’operazione indispensabile per migliorare la resa dei coltivi. Era sovente un lavoro riservato alle donne perché considerato tra i meno faticosi, anche se non poco disagiato. Zappe, zappetti e marre (zappe a lama larga e leggera) erano gli attrezzi per questa operazione, utile ad aerare la terra e limitarne l’evaporazione (l’irrigazione artificiale era praticamente inesistente) oltre che ad eliminare le erbe estranee alla coltura in atto.
IL CONCIME
La fertilizzazione dei terreni costituì, almeno fino all’introduzione dei concimi chimici, uno dei maggiori problemi per l’agricoltura.
Data la scarsità del bestiame e la limitatezza dei pascoli si aveva una limitata produzione di concime organico animale. Gli agronomi parlano di “circolo vizioso”: la mancanza di prati per la preferenza data ai cereali comportava scarsa disponibilità alimentare per il bestiame, di conseguenza poco concime e quindi l’impossibilità di incrementare incisivamente la produzione cerealicola.
Nella stalla è visibile una parte del sistema di recupero dei liquami; questi colavano dal canale fino ad un pozzetto, dal quale erano recuperati e gettati nel mucchio della concimaia. Il trasporto del concio avveniva con la carriola piena, e con la barella.
I liquami dei pozzi neri (spesso recuperati anche dalle abitazioni dei centri urbani) venivano messi in mastelli e barili per poi versarli nei solchi dei campi.
L'ACQUA
Tra i diversi modi di rapportarsi con l’ambiente quello con l’acqua è sicuramente fondamentale per il mondo rurale. È un legame quotidiano, fatto di timori, attese, fatica. Il contadino vive con ansia ogni momento stagionale: talvolta per una grandinata o per le pioggie troppo insistenti, più spesso per l’attesa della pioggia indispensabile per un buon raccolto. Senza dimenticare la fatica quotidiana di procurarsi l’acqua per bere, cucinare, abbeverare il bestiame e per gli altri bisogni.
L’acqua per gli usi poderali veniva portata a casa dal torrente più vicino tramite una botte posta sul brozzo; quella per bere e per usi casalinghi era attinta dal pozzo o dalla più vicina sorgente.
In questa casa l’impianto idraulico venne realizzato nel 1952; in precedenza l’acqua veniva attinta ad una sorgente che si trova nelle vicinanze presso l’orto; da un gemiticcio (piccola sorgente) giungeva l’acqua che alimentava l’abbeveratoio.