(Le note che seguono sono ricavate da testimonianze orali raccolte presso Casa d’Erci)
Il pane era l’alimento primario della famiglia contadina. Due o tre pani al giorno, di 1500-1800 grammi l’uno, è la quantità che viene comunemente indicata come consumo medio giornaliero in una famiglia di una decina di persone.
La massaia preparava e cuoceva perciò dai 16 ai 20 pani la settimana, di solito il giovedì o il venerdì, per avere il buon pane fresco ogni domenica. Tutti i contadini facevano da se il pane mentre pigionali o benestanti (salvo qualcuno che utilizzava il forno privato o di qualche contadino) lo acquistava dai fornai.
Per una settimana si conservava nella madia la pasta cruda di mezzo pane, lasciata lì a seccare e a “inforzare” (diventava acida) per avere i fermenti (“il formento”) o lievito indispensabile per la preparazione del pane nuovo.
La farina veniva “stacciata” (setacciata, per eliminare la crusca) nella madia, con lo “staccino” oppure usando “l’abburatto”, il grande setaccio circolare girevole montato in un cassone di legno.
La sera avanti la massaia preparava nella madia un ponticello di circa 3Kg di farina con un buco nel mezzo (una specie di cratere) dove poneva il formento che poi bagnava con acqua tiepida per farlo ammorbidire e rinvenire. Il tutto veniva lasciato lì per l’intera nottata.
Al mattino la donna si alzava presto, impastava il formento sciolto e farina e lasciava lievitare per circa 4 ore. Nei periodi invernali, per mantenere il caldo necessario alla fermentazione, si poneva nella madia una “cecia” (scaldino con la brace).
Trascorse le ore di lievitazione la massaia univa al composto una quindicina di chili di farina e impastava a lungo, aggiungendo l’acqua tiepida necessaria ed un poco di sale, fino ad ottenere, sempre in ambiente sufficientemente caldo, un impasto omogeneo e di giusta consistenza. Poi arrotondava un poco la massa di pasta, ne tagliava i pezzi ai quali dava via via la forma quasi tonda dei pani e li disponeva in fila su di una lunga asse (“l’asse da pane”, che conteneva di solito 12-15 pani) coperta da un telo infarinato. Lasciava un piega del telo tra un pane e l’altro, perché non si attaccassero, poi ricopriva tutti i pani con la parte del telo lasciata prima a ciondoloni. Sopra, ancora, posava una coperta di lana e lasciava il tutto a lievitare per un’altra ora, in ambiente con un certo tepore, tale da favorire il “crescere del pane”.
Intanto, durante la preparazione e la lievitazione si era provveduto a scaldare il forno, situato presso il focolare (come a Casa d’Erci) o più comunemente nella loggia d’ingresso o in una di quelle esterne alla casa.
Occorrevano circa 2 ore per scaldare il forno e per questo si adoperavano fascine di “sormenti” (legna ricavata dalla potatura delle viti) o di olivastri (potatura degli olivi). Le 4 o5 fascine necessarie venivano spostate via via lungo le pareti interne del forno per scaldarlo tutto uniformemente.
Per sapere quando il forno era caldo al putno giusto si controllava il colore della bocca che rimaneva aperta: quando diventava biancastra per circa 4cm dal bordo interno verso l’esterno il forno era sufficientemente caldo e si poteva ripulirlo dai tizzoni con il tirabrace (ferro ad elle manicato con un lungo bastone). Poi si puliva bene bene il piano con un cencio bagnato legato annch’esso in cima ad un bastone.
Il forno caldo appariva internamente tutto bianco ma negli anfratti dei mattoni rimaneva della caligine detta “bronza” che doveva essere tolta affinché non sporcasse il pane; per far questo si chiudeva la bocca del forno, con l’apposito sportello di ferro, e il movimento dell’aria causato dall’improvvisa interruzione del tiraggio faceva cascar giù la bronza.
Quasi sempre però, per valutare bene la temperatura del forno si coceva una “schiacciata a mezzo forno”: veniva preso per questa un pane, schiacciato per con le mani e la punta delle dita ad uno spessore di mezzo centimetro, poi condito con olio e sale e quindi infornato. La schiacciato doveva cuocere in circa un quarto d’ora; se si coceva prima voleva dire che il forno era troppo caldo, e per raffreddarlo un po’ si mettevano dentro per pochi minuti delle frasche con foglie verdi; se la schiacciata cuoceva più lentamente il forno non era ben caldo, e in questo caso bisognava contentarsi del pane poco cotto, anche se veniva tenuto dentro più a lungo.
Bravura della massaia era perciò anche quella di saper valutare bene i tempi per ottenere la giusta lievitazione del panee l’adeguato riscaldamento del forno.
A questo punto si infornava: con gesti rapidi la massaia prendeva una ad una le forme di panne dall’asse, tirando la piega del telo con la mano sinistra per depositare il pane su un’assicella con manico che teneva nella destra; da questa il pane veniva deposto sulla “panaia” (una spatola di legno affilata ai bordi, larga poco più di un pane, con un lungo manico) per essere collocato dentro il bordo. I pani venivano disposti intorno alla parete circolare e poi nel centro, gli ultimi vicino alla bocca del forno. Tutta l’operazione doveva essere eseguita rapidamente, poi il forno veniva chiuso.
Dopo venti minuti si apriva il forno per controllare la cottura e per spostare i pani meno cotti (quelli più vicini alla bocca) al posto di quelli nelle zone più calde del forno.
La cottura si completava in un’ora circa; poi con la panaia, si sfornava, sistemando i pani, dopo averli puliti dalla cenere con uno spazzolino di saggina, sull’asse da pane (senza il telo) ritti a coltello e appoggiati l’uno sull’altro, in attesa che si raffreddassero.
Se durante la cottura due forme di pane erano rimaste a contatto, provocando una traccia nella crosta, si diceva che il pane era “baciato”.
Durante la settimana i pani venivano conservati nella madia, ripulita dalla farina e dai resti dell’impasto. Da un parte, in un piatto il mezzo pane crudo che diventava formento. Nella madia rimanevano sempre anche la spazzola di saggina, il “raschino” (spatola di ferro curvata ad U con un manico) usato per ripulire dai resti di pasta la madia o lo “spianatoio”: il grande ripiano mobile di legno sul quale si preparava la pasta fatta in casa (tortelli, nastroni) o si rovesciava la polenta.
Il forno rimaneva caldo per diverse ore e veniva sfruttato per cuocere fagioli, patate castagne o dolci; più tardi ancora per seccare, sopra gli appositi graticci di vitalba o vinchi verdi, i fichi, pomodori o altri frutti.
Al pane è sempre stata legata una certa immagine di sacralità e diverse pratiche devozionale. Sull’architrave in pietra del forno si trovava spesso incisa una croce; la massaia si faceva il segno della croce prima di iniziare l’impasto così come segnava in croce i pani prima di infornarli. Non si doveva porre il pane rovesciato sulla tavola perché “porta male” e quando accadeva usava invocare Santa Brigida, sua protettrice; il pane non doveva assolutamente essere sprecato ed ogni briciola veniva sempre accuratamente raccolta. Ai ragazzi si diceva che chi sciupava una briciola di pane sarebbe stato mandato a ricercarla, in purgatorio, con un dito acceso.
A cura del Gruppo d’Erci – prima redazione Sandra Biavati ottobre 1985