(Le note che seguono sono ricavate da testimonianze orali raccolte presso Casa d’Erci)
L’alimentazione quotidiana della famiglia contadina variava secondo le stagioni, poiché variavano con esse i ritmi di lavoro e i prodotti alimentari a disposizione.
Teniamo presente che la quasi completa autosufficienza, insieme ad un obbligato, ma anche sentito e vivo senso della parsimonia, era una delle caratteristiche peculiari del vecchio ambiente mezzadrile e rurale.
Nel periodo autunnale e invernale, quando la giornata è più corta e minori sono le ore per lavorare all’aperto, i pasti della famiglia erano solo due: la colazione ed il “desinare” (pasto principale).
La colazione (“culizione”) al mattino verso le 8 e mezzo o le 9, dopo due o tre ore di lavoro era per il lavoratore piuttosto consistente: “ova” (spesso in frittata) porri, cipolle o sedani in pinzimonio, “affettati” (insaccati di maiale di produzione familiare), formaggio (nelle famiglia che tenevano le pecore e lo producevano in proprio), pane e vino.
Presso i contadini più poveri era frequente la prima colazione a base semplicemente di pane e aglio a spicchi; presso le famiglie più benestanti era invece uso consumare anche uva e ciliege in “guazzo” (sotto spirito) soprattutto all’inizio di una giornata che si presentava particolarmente faticosa, come per l’aratura ma anche, d’estate, per la mietitura e la trebbiatura.
Più leggera la colazione delle donne dei ragazzi: caffellatte con caffè d’orzo e pane inzuppato oppure “bruciate” (castagne arrostite) o pane con noci, frutta, uva secca, olio e sale, o ancora, quasi un dolce, pane, vino e zucchero o pane e marmellata.
Da molti gruppi familiari il desinare di mezzogiorno veniva d’inverno saltato per continuare il lavoro. La famiglia si raccoglieva a sera per la cena verso le 6 e mezzo o le 7 attorno ad una minestra di fagioli (“sui fagioli”) o di ceci o di patate e verdura con pasta di sfoglia fatta in casa.
La massaia o il capoccia facevano le parti nei piatti dei familiari; se qualcuno tardava trovava la sua parte già pronta nel piatto (già “tirata”); le minestre, cotte nel paiolo, venivano portate in tavola nella zuppiera bianca, di smalto o di ceramica, e versate col ramaiolo (“romaiolo”).
Ricorrente nell’alimentazione invernale era la polenta (“pulendo”) unta, cioè con il sugo e/o incaciata (con il formaggio, da solo o accompagnato da un po’ d’olio). o quella avanzata dal giorno precedente, arrostita su una gratella sulla brace o fritta o insaporita dall’aringa che la famiglia consumava con moderazione: una aringa bastava, con abbondante polenta, ad almeno tre persone.
All’aringa a volte si sostituivano – ed erano tra le poche cose comprate a bottega – i salacchini: pesce secco di dimensione intermedia fra l’acciuga e l’aringa. Questi prodotti, comprati in paese, costituivano un frequente companatico che dava un po’ di gusto al pane e alla solita polenta.
Un paiolo di “ballotte” (castagne fresche lessate) o di “succisole” (castagne secche lessate) magari “mangiate a veglia” vicino al focolare completava il quadro dell’alimentazione invernale della famiglia. A vegli però poteva anche esserci la polenta dolce, fatta cioè con la farina di castagne, accompagnata talvolta da latte e ricotta.
D’estate i lavoratori e la massaia si “levavano” molto presto: alle 4 – 4 e mezzo (“a bruzzico” cioè alle prime luci dell’alba) prima di recarsi nella stalla o nei campi qualcuno prendeva un “ovo a bere”, spesso accompagnato da un bicchierino di vinsanto. Alle 8 e mezzo rientravano a casa per fare colazione con la consueta frittata, insalata, ortaggi in pinzimonio, patate fritte, pane, vino e frutta. In generale l’alimentazione estiva si arricchiva per la maggior disponibilità di ortaggi e frutta secca.
Non sempre però i contadini rientravano a casa far colazione; durante i lavori più impegnativi, come la mietitura, questa veniva portata dalle donne sul luogo di lavoro.
Tra mezzogiorno e il tocco (le 13) tornavano a casa per il desinare e sulla tavola trovavano ancora la minestra di pasta sfoglia, verdure, legumi cotti, pane e frutta.
Dopo il pasto gli uomini riposavano un paio d’ore, sul letto o al fresco sotto una loggia, prima di tornare al lavoro.
La cena serale estiva veniva chiamata merenda, poiché le donne la portavano verso le 7, prima che cominciasse a far buio, nei campi coi panieri (“pianieri”).
Nel paniere, coperto con un tovagliolo, portavano la tovaglia da stendere sull’erba di una viottola, 3 o 4 bicchieri (non per tutti), i piatti, il pane, il vino e l’acqua, le posate.
La merenda era di solito un piatto fresco costituito da panzanella (“pan molle” o “pan passerotti”), frittata, fiori di zucca fritti, patate lesse, pomodori e cetrioli (“trecioli”) conditi, zucchini (“zucchetti”) o fagiolini cucinati. Tutti questi cibi erano variamente alternati e accompagnati a volte da affettati o carne di pollo o di coniglio fritta.
Finito di mangiare gli uomini tornavano alle faccende dei campi: mietere, rabbarzare il grano, ramare le viti, etc.) fino a notte; solo chi aveva da “governare” le bestie si recava a casa un paio d’ore avanti.
Solo la domenica generalmente la famiglia contadina si permetteva un po’ di “rialto” (miglior qualità e quantità di cibo, compresa la carne).
Compariva talvolta nel desinare la carne di manzo, con la quale si faceva anche la minestra in brodo o lo spezzatino in umido. Era il capoccia, di solito, di ritorno dalla prima messa, a passare dal macellaio di paese a comprare il lesso. Più frequenti erano però il pollo o coniglio in umido, o fritti o cucinati ad arrosto morto, cioè non in forno o sul fuoco ma nel tegame sul fornello.
Polli e conigli non erano di abituale consumo come si potrebbe credere, considerato che erano allevati in buon numero da tutti, poiché venivano quasi tutti portati al mercato settimanale per venderli.
L’allevamento di maiali invece ha sempre avuto una grande importanza in quanto almeno uno era annualmente destinato al consumo familiare. La carne era lavorata e conservata nelle preparazioni tradizionali: spalle e prosciutti, di cui uno spettava al padrone, ma soprattutto salame, salsiccia, “capinsaccato” (soprassata). Il lardo, conservato nei bianchi vasi ceramici, trovava largo impiego negli usi di cucina.
Per uscire dalla consuetudine la pasta domenicale era, a volte, quella comprata a bottega: maccheroni o penne, condita con il sugo fatto con i ritagli di carne ricavati dagli scarti del coniglio o del pollo (testa e interiori) insaporiti da un soffritto di odori, pomodoro e qualche fungo secco.
Ma, più spesso, il primo piatto domenicale consisteva nei tradizionali tortelli di patate o negli gnocchi, conditi con sugo e pecorino secco.
Da questo quadro si ricava che la famiglia contadina consumava quasi soltanto i prodotti del podere. I prodotti comprati erano pochi, gli alimenti di base erano sempre le uova, il pane, le minestre di pasta fatta in casa, con fagioli o ceci, le patate e le altre verdure secondo le stagioni.
Fino ai primi anni del secondo dopoguerra nella nostra zona era ancora diffuso il pane “vecciato”: il pane nero, fatto con farina di grano mescolata a semi di veccia e di altre leguminose, spontanee o coltivate in genere come foraggio per le bestie.
Solo se uno era malato si poteva comprare, anche durante i giorni feriali, la braciolina di manzo o il lesso per un brodo di carne. Ai vecchi con problemi di masticazione e ai bambini veniva spesso preparata la pappa con il pomodoro, a base di pane raffermo cotto condito con olio buono, oppure il “brodetto”: farinata di farina bianca cotta nell’acqua o la palla di farina bollita. Questa consisteva in una grossa manciata di farina di grano, chiusa a palla dentro un panno e messa così a cuocere in una pentola d’acqua; una volta tolta dal panno la palla cotta e indurita veniva lasciata seccare e conservata in vasi di vetro, poi, all’occorrenza, grattugiata in una tazza d’acqua calda o latte costituiva per i piccoli un cibo sostanzioso e rapido da preparare.
Era convinzione comune nel mondo rurale che la farina bianca costituisse un alimento energetico e con particolari proprietà nutritive; per questo veniva data alle donne incinte, cruda, sciolta nell’acqua da bere.
Tra le bevande il vino era consumato usualmente, ma non se ne beveva mai a scialo, sempre con moderazione perché , soprattutto il vino buono, era un prodotto destinato per la maggior parte alla vendita.
Dall’autunno alla tarda primavera al vino si sostituiva spesso “l’acquerello” , riservato in particolare a donne e ragazzi, o il “mezzone”: vinelli frizzanti e piacevoli, ma di bassissima e bassa gradazione (si veda in proposito la scheda relativa al vino).
Le pecore nei poderi di montagna e le mucche, presenti quasi in ogni stalla, fornivano il latte d’abituale consumo per tutte le famiglie, insieme a latticini come il “rovaggiolo” (raveggiolo) e la ricotta.
Il caffè era fatto con l’orzo ed il grano tostati (talvolta anche ceci o semi d’uva) macinati insieme.; la polvere ottenuta veniva buttata in una pentola d’acqua bollente ed il tutto lasciato a riposare finché si depositava la fondata.
Lo zucchero era una delle poche cose comprate a bottega e anch’esso usato con molta parsimonia: Il riso veniva spesso comprato a sacchi e usato per le minestre al posto della pasta perché più conveniente. Il miele veniva usato a scopo terapeutico presso le famiglie che tenevano le arnie – pochi contadini avevano “le pecchie” (le api) – e usato con il latte caldo per il mal di gola e il raffreddore.
La massaia ogni anno faceva le conserve, oltre a quella di pomodori, di frequentissimo impiego, con questo termine venivano indicate anche le marmellate, soprattutto di more e di fichi, dato che per queste occorreva meno zucchero, utilizzate poi per le merende dei ragazzi e per dolci come le crostate.
L’olio d’oliva era di consumo diffuso dato che quasi tutti i contadini, a Grezzano in particolare, avevano un buon numero di olivi nel podere.
Secondo le antiche e ben radicate abitudini niente doveva essere buttato via: tutti gli avanzi e gli scarti di cucina venivano in qualche modo riutilizzati; il cibo avanzato serviva per preparare polpette, zuppe, panzanella, o, al limite, come becchime per i polli.
A cura del Gruppo d’Erci – prima redazione di S.Biavati – Aprile 1988.